La gelataia – racconto di Fabio Carapezza |
Incipit del racconto: La gelataiadi Fabio Carapezza
Va bè, si dovrà pur combinare qualcosa, prendo la macchina e mi metto in corsa verso il niente, insieme a centinaia di altri automezzi che sembrano più affacendati di me. Inizio a circumnavigare strade e isolati, quartieri di vita in cui la vita scorre fluida e quotidiana, e nessuno che si accorga di quanto mi annoi.
L’occhio mi va a cadere giusto sulla gelateria. Non conoscevo bene quella strada, perché in fondo, in città, le strade si assomigliano quasi tutte. Il tendaggio pulito e aggraziato nascondeva dietro ai vetri piccoli tesori e grandi prelibatezze, e nascondeva Giuseppina al mondo e a me, come a proteggerla dalle infiltrazioni e dai raggi violetti di quell’estate legnosa. Ho accostato e sono sceso dall’auto con le quattro frecce attaccate, sono entrato dalla porta e... Signori... che bellezza prorompente e buongustaia, doveva mangiarne di gelati la birichina, con quelle braccine così carnose e le labbra proporzionate alla sua quinta abbondante. Mi sono sempre piaciute le tette grosse da latteria di montagna, polpose e debordanti come quelle di Giuseppina, che a fatica restavano al loro posto sotto il grembiulino immacolato. Un bel cappelluccio a visiera tratteneva i suoi crini di cavalla, e il sorriso... beh, va bene i suoi seni rigogliosi, ma il suo sorriso, signori, quello scintillava aumentando lo splendore di tutto quel corpo crepitante. “V... orrei una cialda da tre euro con crema whisky e bacio bianco” le faccio io, trattenendomi a fatica dallo svenire. La smorfiosetta annusa l’ennesimo spasimante, mi guarda fisso e mi fa “se vuole, abbiamo un nuovo gusto, il Bacio del Peccato”.
Prendete un pomeriggio senza ossigeno, una città come una crostata senza zucchero che evapora ora per ora, prendete Giuseppina, un quarantenne scapolo qualunque e voilà, la ricetta dell’attaccamento morboso è pronta. Da quel momento sono diventato cliente fisso della gelataia, che si preoccupava di iniziare a sorridermi dai suoi sedici anni prima ancora che irrompessi nel negozio. A volte stava troppo indaffarata, ma io studiai con carta e calamaio gli orari strategici per trovarmela sola, o al massimo accompagnata dal suo Bacio del Peccato, tutta per me. Ci andavo alle dieci del mattino quando aveva appena aperto, ci tornavo per salutino casto verso le dodici, con la scusa del negozio di cartucce per stampanti lì affianco. Non ho mai mangiato tanti gelati e bevuto tanto inchiostro per la mia Hp deskjet 3550 come quell’estate. Giuseppina e i suoi seni di cui di notte sognavo gli spuntoni come chiodi appuntiti, mi davano il benvenuto da dietro il bancone, e lei era maestra nel vezzeggiarsi davanti a me. La monella doveva fare così non solo con me, chissà quanti quarantenni scapoli avevano messo gli occhi addosso alle sue forme generose, con buona sorte del negozio e del suo titolare, che per fortuna io non vedevo quasi mai. Divenni comunque geloso di lui, di tutti i clienti, anche della collega alla quale Giuseppina si avvicendava per coprire gli orari (…)
Tratto da “L'inconveniente di esistere”
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